IL GIORNALE ONLINE DEGLI STUDENTI DEI LICEI ECONOMICO-SOCIALI PUGLIESI

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Come un antico aedo, incanta con i suoi racconti. Già a partire dall’esordio:
“Qui a Bari, mi sento a casa mia; noi, che abitiamo le sponde dell’Adriatico, abbiamo abitudini, usi e linguaggi molto simili e soprattutto sappiamo cos’è la tolleranza”. Lo scrittore ci ha concesso una lunga e sincera intervista. “Il Ciclope è un’opera a metà strada tra diario intimistico e racconto odeporico; narra, infatti, di un suo viaggio su un’ isola disabitata. Cosa rappresenta il viaggio per lei?
“Fin da piccolo fantasticavo guardando il mare o la terra ferma perché a dieci km dalla mia città, Trieste, cominciava un altro sistema politico, un’altra lingua: lì iniziava il grande mondo comunista. C'era, quindi, un “altrove”, completamente diverso dal mio. Inutile dire che questo per me è stato un arricchimento enorme: trovarsi a due passi dal mondo slavo, mitteleuropeo o da quello mediterraneo, con tutti i suoi racconti, le sue odissee, le sue migrazioni è stato un elemento di stimolo continuo. Il viaggio è stato un perno nella mia vita.
Partire per terre lontane e poterlo fare anche per mestiere è stato un sogno che ho potuto realizzare, però, solo in età relativamente tarda. Il tutto è cominciato quando il secondo dei miei figli - che a quel tempo aveva sedici anni, io stavo per compierne cinquanta - mi ha chiesto di fare un viaggio con lui. Era accaduto che il padre del suo compagno di banco del liceo si fosse tolto la vita e lui ha temuto di perdere anche me, senza avermi conosciuto a fondo. Abbiamo deciso di partire in bicicletta da Trieste a Vienna. È stato un’esperienza che mi ha cambiato la vita perché ha mutato il rapporto con mio figlio: non eravamo più padre e figlio ma due compagni di viaggio, di cui il più vecchio era il lupo, la guida, su cui fare affidamento. Questo ha creato un clima goliardico tra di noi. Ci siamo mandati a quel paese, abbiamo riso, bevuto birra ma soprattutto osservato il mondo e io, vedendolo anche attraverso i suoi occhi, ho assistito al dilatarsi delle mie percezioni: la bicicletta è un mezzo che ti espone completamente al mondo esterno. È mutato anche il mio modo di descrivere la realtà, perché una persona che si muove, disegna meglio il contesto di chi sta seduto al tavolo di casa sua. Il ritmo del racconto risulta così dettato dal battito del cuore, dalla cadenza del passo e dal respiro. Questi tre elementi determinano, a mio parere, la partitura di qualunque narrazione. Poco tempo dopo, Altan, il grande vignettista di “La Repubblica”, organizzò un viaggio da Trieste a Istanbul. Io volevo andarci ad ogni costo. Così, telefonai ad Ezio Mauro, Direttore del giornale, e gli proposi che, se mi avesse lasciato partire, avrei descritto le tappe di questo viaggio in Turchia, commentando le vignette di Altan: diventò il servizio dell'estate.”
Come è iniziata l’esperienza del suo viaggio sull’isola del Ciclope?
“Ho viaggiato a tutte le latitudini del pianeta. Poi qualche tempo fa, ho avuto il bisogno di darmi una vacanza, di essere irreperibile, di tagliare momentaneamente i ponti con il nostro mondo e sono partito per Pelagosa. Mai avrei immaginato che tre settimane solitarie in un'isola deserta, avendo come compagni solo due faristi, un asino e qualche gatto randagio mi avrebbero dato tanto. Temevo di annoiarmi, tanto che ho portato con me venti kg di libri, insieme a sessanta kg di cibarie e venti litri di vino. Una volta lì, mi sono state sufficienti poche ore per capire che meraviglioso posto fosse. Bastava un cambiamento del clima per generare una rivoluzione di profumi, colori, pensieri, che contagiava i miei stati d’animo.”
Qual è stato il momento più intenso del suo esilio sull’isola?
“È stata una notte in cui è sceso un silenzio irreale e, come accade ad un animale notturno, questo mi rese inquieto. Dalla finestra mi resi conto che c’era in cielo una luminaria incredibile, una stellata che avevo visto prima di allora soltanto nel deserto. Non ero, però, in grado di distinguere quelle costellazioni. Se avessi avuto a disposizione il mio tablet –ma sull’isola la rete non funzionava - avrei trovato subito una risposta. Mi avviai su un'altura che aveva l’antico nome greco “Salamandra”. Mi sedetti sull’erba e mi concentrai. Pensai, allora, alla coda della salamandra e, per associazione di idee, compresi che quella era la costellazione dello Scorpione. Il mondo in cui viviamo sembra predisposto a spegnere il nostro intuito. In questa “vacanza dalla rete” ho potuto amplificare e raddoppiare la mia capacità di osservazione. Le persone che mi hanno visto al mio ritorno hanno ritrovato un uomo dotato di un altro occhio e un altro sorriso; quelle tre settimane mi avevano profondamente cambiato”.
“Lei è un grande affabulatore, quanto dell’oralità persiste nella sua scrittura?”
"Tanto, senza l’aedo che c’è in me non riuscirei a scrivere. Vi racconto una storia: durante la guerra dei Balcani, quando fui inviato dal giornale a Sarajevo, conobbi una donna di immenso fascino che mi fece da interprete. Ella, alla fine del mio soggiorno, una sera a cena, mi cantò una vecchia canzone bosniaca. Che raccontava la storia di due amanti, ostacolati dalle rispettive famiglie. La fanciulla protagonista di quel canto ad un certo punto si ammala e chiede al suo fidanzato di andare a Istanbul a prendere una gialla cotogna, un frutto dalle note virtù medicinali. La storia finisce male perché il giovane, al rientro scopre che la ragazza è morta. A distanza di anni, questa donna mi chiamò e mi confessò di essere gravemente ammalata e di voler venire in Italia. L’intervento chirurgico a cui fu sottoposta in un ospedale italiano, purtroppo, fu tardivo: le rimanevano solo alcuni mesi di vita. In questo periodo, noi rinforzammo il nostro rapporto. Poi, come nella canzone, mentre lei si stava aggravando, io venni inviato a Istanbul. Quando le dissi che sarei partito per quella città, scorsi nei suoi occhi il panico: ella aveva già capito che sarebbe morta prima che potessi tornare con il frutto della città magica. E così fu. Per rielaborare la perdita, ho avuto bisogno di narrare questa storia. Nonostante provassi a scrivere, il risultato era deludente. Solo il racconto in versi, solo le strofe di una ballata, la forma poetica più vicina all’oralità, potevano raccogliere il groviglio di emozioni e sentimenti che si agitavano nel mio animo. Così nacque La cotogna di Istanbul. È indubbio che l’oralità influenzi e dia ritmo alla mia scrittura. Le parole, per me, non sono solo sequenze di fonemi, ma costituiscono il concentrato di passioni che viene “spremuto” nelle lettere. Quando noi parliamo in versi, la parola mare non è soltanto l’unione di m-a-r-e, ma è un insieme di tempeste, di stelle, di velieri che passano… Pronunciando le parole ad alta voce, si sentiranno tutte le vite che le hanno pronunciate prima e si percepirà la bellezza che esse contengono.”
È stata siglata la nascita di un nuovo movimento politico, etico-sociale, con tanto di manifesto, firmato da filosofi e intellettuali di fama mondiale. Il Convivialismo - così si chiama - individua proprio nell’urgenza ambientale una delle priorità per livellare gli squilibri di questo mondo. Cosa ne pensa?
“Non c’è bisogno di scienziati, filosofi e sociologi per capire che siamo giunti ad un punto di non ritorno. Le risorse energetiche a disposizione sul pianeta stanno per esaurirsi e si è ingaggiata una disperata corsa all’accaparramento di quel poco che rimane. Va detto a chiare lettere che l’1% degli abitanti della Terra, nella stragrande maggioranza occidentali, detiene il 90% di tutti i beni. La sproporzione è macroscopicamente evidente. A parte qualche sparuto intellettuale o scienziato, solo il Papa ha il coraggio di denunciare con forza tale situazione. Il fondamentalismo islamico stesso è un prodotto degenerato di questa condizione. C’è alla base di questo odio religioso, io credo, una sorta di revanscismo nei confronti dell’Occidente predatore. Le migrazioni di massa dall’Oriente e dall’Africa verso l’Europa e i naufragi di profughi nel Mediterraneo sono l’esito più drammatico del fallimento del turbocapitalismo. Gli effetti nefasti di un’economia improntata sul profitto si sono riversati anche sull’ambiente. La natura, violentata e deturpata, prima o poi si vendicherà. È già in corso una lotta per l’esistenza di cui le specie viventi sembrano essere consapevoli, tutte, tranne l’uomo. Che continua saccheggiare e sfruttare il pianeta, senza rendersi conto che egli stesso, in un domani non troppo lontano, sarà la vittima sacrificale di tale sistematica spoliazione. Sull’isola c’era una gallina solitaria che si nascondeva poiché temeva gli attacchi feroci dei gabbiani i quali, non potendo più nutrirsi di pesce – il patrimonio ittico del Mediterraneo è ridotto drasticamente – avevano sterminato tutti i polli dell’isola. Dobbiamo darci una regolata, imporci un limite; l’unico modo per farlo è capire che non possiamo più parlare di crescita, se questa si realizza a spese dei più deboli. Dobbiamo, quindi, pensare ad una decrescita per non estinguerci”.
Dalle sue parole e da ciò che si legge ne “Il Ciclope” sembra che lei abbia un cattivo rapporto con la tecnologia, è così?
“Non dico che si debba fare a meno degli strumenti tecnologici, perché ne faccio uso smodato anche io stesso, però ogni tanto “prendersi una vacanza” da questi oggetti è auspicabile. Se li tieni lontani, intorno a te si ricrea un silenzio che ti fa riappropriare di te stesso. Il segreto è non diventare schiavi della tecnologia e mantenere da essa una sacrosanta distanza. Il GPS ha reso gli uomini più cretini e dipendenti. Faccio un esempio: qualche tempo fa, d’inverno, mi trovavo in montagna. Nonostante il freddo cane e la neve, me ne andai a fare quattro passi con un amico in un bosco. Camminando, scorgemmo i fari di un’automobile che ospitava una giovane coppia. La macchina era sprofondata nella neve. Una volta soccorsi, i due ci spiegarono che il GPS li aveva spinti lì. Erano totalmente concentrati sullo schermo dell’apparecchio da non essersi resi conto che erano passati davanti alla loro meta e non l’avevano neanche vista. Il GPS o ammennicoli del genere sono utili, ma dobbiamo ridimensionarne l’utilizzo per conservare la nostra atavica capacità d’orientamento e non trasformarci in automi”.

Le alunne della II AU Daniela Deceglie, Federica Delconte, Alessia Lopez, Alessia Persia - Liceo BIANCHI-DOTTULA Bari

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