IL GIORNALE ONLINE DEGLI STUDENTI DEI LICEI ECONOMICO-SOCIALI PUGLIESI

Vi è mai capitato di sentire il bisogno di fermarvi, di mettere a tacere il mondo per qualche ora, di affacciarvi alla finestra, di indossare un paio di cuffiette e far partire una canzone, del tipo “Time” dei Pink Floyd, accendervi una sigaretta e semplicemente assaporare quel momento di “fragilità”? Vi è mai capitato di sentirvi malinconici?

Nel suo aspetto clinico, la malinconia è un atteggiamento caratterizzato da tristezza e affievolimento dell’interesse per la realtà che può diventare un vero e proprio malessere che compromette le funzioni vitali. È considerata, per questo, il presupposto della depressione. Questa spiegazione, però, ha messo in ombra il concetto di malinconia vista come “stato d’animo” dolcemente pensoso e nostalgico. Il termine malinconia deriva dal greco mélasnero e cholé bile, cioè “bile nera”. Gli antichi credevano che questa bile nera, insieme al flegma, alla bile gialla e al sangue formasse i Quattro Umori che controllano l’esistenza intera dell’uomo e ne determinano il carattere: per cui essa è indispensabile. Fin da quando siamo piccoli ci viene inculcato che per poter essere considerati sani e “normali” bisogna essere sempre sorridenti ed ottimisti, non ammalarsi e non lasciar trapelare mai le emozioni negative… Il risultato è una società finta e triste. Ormai, alla domanda “Come stai?” viene automatico rispondere “Bene!” come fosse scontato, perché ci sentiamo in dovere di mentire e di essere sempre sulla cresta dell’onda. Siamo così abituati a mentire agli altri che ci convinciamo delle nostre bugie e finiamo per non essere più sinceri nemmeno con noi stessi, ad avere paura e a negare di stare male. Quello che dovremmo capire è che la malinconia non ha esclusivamente connotazioni negative, anzi, in alcuni casi ha portato anche qualcosa di positivo. Non è solo un sentimento inadeguato e negativo da scacciare o da nascondere. Dovremmo capire che esiste una malinconia, per così dire, buona.

Sono tanti i poeti, gli scrittori, gli artisti, cantanti e cantautori, del passato e contemporanei, che ne hanno fatto la loro macchina motrice. Ad esempio, Leopardi più di ogni altro ha trasformato questo moto dell’anima in versi, in parole, in canto svelando la vulnerabilità, la fragilità che ci accomuna tutti. Nei suoi Idilli ci ha presentato la malinconia come quel desiderio di infinito, di una felicità irraggiungibile che provoca nell’uomo una ferita che vuole essere curata e riparata.

Pablo Picasso vedeva nel blu, non solo dolore, com’è stato spesso sottolineato impropriamente, ma introspezione, ricerca di un valore spirituale; fino ad arrivare ai Pink Floyd, sopracitati, che con la loro musica sofisticata, ricca di atmosfere magiche e nostalgiche portano la mente in epoche e universi paralleli.   Personalmente, è da quando ne ho memoria che convivo con la malinconia. Infatti, fin da piccola, sono sempre stata molto riflessiva e introversa, potevo incantarmi per ore davanti a un tramonto: mi rinchiudevo in un mondo tutto mio, felice, inaccessibile agli altri e immaginavo, immaginavo… isolandomi, dimenticando per un po’ la realtà confusionaria e problematica. Da bambina non ci facevo troppo caso, ma con il tempo ho iniziato a odiare questo lato di me e a cercare di sopprimerlo, ma puntualmente rispuntava fuori e mi faceva soffrire. Quindi l’ho accettato, o meglio, sto imparando ad accettare che sono fatta così, che di tanto in tanto ho bisogno di dire “Time out. Fermati. Respira”, di pensare al mio passato, ai ricordi belli ma anche brutti, di farmi domande sul futuro, di avere dubbi, paure, di provare dolore perché se proviamo dolore vuol dire che siamo vivi, di credere di non farcela per alzarmi più forte di prima. In questo periodo di emergenza, in particolare, ci siamo ritrovati a dover fare i conti con la reclusione forzata, irrimediabilmente soli, in alcuni casi persino lontani dagli affetti. C’è chi l’affronta meglio, chi peggio, ma tutti inevitabilmente ci siamo sentiti persi e tristi almeno una volta in questi mesi, preoccupati per l’avvenire, per il numero di morti e malati, per l’economia che sta decadendo, per i nostri cari e ci siamo resi conto dell’importanza di quelle piccole cose che prima risultavano scontate come una chiacchierata tra amici, un caffè al bar, una passeggiata tranquilla. Ciò che voglio dire è: non dobbiamo aver paura di essere fragili, di sentirci soli nel nostro malessere perché tutto il mondo soffre; non scacciamo i cattivi pensieri perché anche quelli servono; non vergogniamoci di piangere, non dimentichiamo il passato e le brutte esperienze ma ricordiamole perché è soprattutto grazie a quelle che siamo le persone che siamo oggi. Accettiamo le nostre debolezze e le nostre fragilità prendendocene cura.

(Eugenia Fratta, 2^F, LES “ Fiani-Leccisotti”, Torremaggiore – FG)

 

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